Benvenuti

Un saluto a tutti quelli che entrano in questo spazio di discussione.
Puoi aggiungere un commento ai Post pubblicati oppure aggiungere un contributo mandandolo ad uno dei nostri indirizzi e-mail

martedì 25 settembre 2012

Facciamo i conti


Eppur si muove. Lento ma si muove. Il gruppo consigliare del Pd in Regione ha pubblicato il rendiconto delle spese. Non ci ha fatto vedere le ricevute e gli scontrini (cosa che dovrebbe fare, pubblicandoli on line) ma sotto i colpi della stampa (sia il Messaggero sia il Piccolo hanno posto pubblicamente la questione) hanno almeno fornito i capitoli di spesa e qualche dettaglio.
Per il Pd non è stata una scelta facile. Non tutti dentro il partito erano d’accordo. Già il fatto che si sia dibattuto rende l’idea di quanto le forze poltiiche italiane siano distanti dalla trasparenza nel rapporto con gli elettori. Il capogruppo Moretton è stato lesto a cavalcare l’onda montante di malumore derivante dal caso Lazio, spinto dalla segreteria regionale. E’ stato rapido e efficace ma ancora incompleto. Se il Pd vuole completare l’operazione trasparenza -appunto- metta sul sito il rendiconto dettagliato delle fatture con le spese del gruppo. Chi ha fatto le consulenze, dove sono stati acquistati i cellulari e la cancelleria? A quale prezzo? Si tratta di una scelta hard per la politica regionale ma va fatta. Spesso dai nomi e dagli importi si capiscono tante cose: le relazioni, i costi impropri, i costi gonfiati tanto per citare.Infine, una considerazione. Si può rimproverare il Pd di aver fatto una pubblicazione solo parziale, è vero. Almeno il Pd ci ha provato. E in una campagna elettorale che si presenta infuocata e all’insegna delle accuse reciproche sulla casta e sull’opacità dei comportamenti il partito offrirà alla Serracchiani un importante elemento a suo favore. Continuo a chiedermi perchè la Lega e il Pdl e soprattutto i membri del gruppo misto non vogliano divulgare i loro conti. Vogliamo sapere. Forza, consiglieri! Ce la potete fare. Il Lazio-gate ha aperto un file nella mente degli elettori. Ora si aspettano una operazione pulizia anche in Friuli Venezia Giulia. E non venite a dire che qua è meglio che in Veneto. Non è un argomento interessante. Qua ci interessa il Friuli, non quel che fanno gli altri.
Omar Monestier - Messaggero Veneto

mercoledì 19 settembre 2012

La foresta dei Gattopardi


Che cos'è davvero l'antipolitica? Da mesi le forze politiche in Parlamento non trovano l'accordo invocato da tutti, dal Quirinale alle associazioni, dal primo cittadino all'ultimo di noi, per cambiare una porcata di legge elettorale invisa al 99 per cento degli italiani. In compenso ieri, in un attimo, i partiti sono riusciti a bloccare quasi all'unanimità una piccola norma di trasparenza, l'obbligo di affidare a una società esterna il controllo delle spese dei gruppi parlamentari. Poca roba, si capisce, rispetto a quello che i partiti avrebbero potuto e dovuto fare di corsa dopo l'ondata di scandali che rischia di travolgerli, dai casi di Lusi e Belsito giù fino alle spese trimalcionesche della Regione Lazio, e cioè una vera riforma dei rimborsi elettorali e un taglio netto agli sprechi, con un severo controllo da parte di organismi terzi. 

Insomma una spending review applicata ai costi della politica. Nulla di questo è avvenuto e la montagna di promesse aveva finora partorito lo sparuto topolino di una singola regola di trasparenza, per giunta applicata a una modesta fetta della torta di danaro pubblico destinata ai partiti, quella gestita dai gruppi della Camera. Ma anche questo minimo sforzo d'intercettare le richieste del Paese reale è parso al ceto politico un sacrificio troppo grande e ieri la norma ha rischiato di essere cancellata, prima dell'intervento di Fini e di Pd, Udc e Idv. Negare l'obbligo di un controllo esterno per lasciarlo alla vigilanza degli  organi interni significa non cambiare nulla. Andare avanti com'è andata finora, ovvero malissimo.

Questa è antipolitica. Autentica, volgare e pericolosa. Quando si disprezza in questo modo la richiesta da parte dei cittadini di maggior pulizia e controllo sul danaro pubblico dato ai partiti, quando si maschera con la bandiera ideale dell'autonomia una sostanziale impunità, quando si predicano i sacrifici ogni giorno agli altri per barricarsi alla prima occasione intorno ai propri privilegi, non si rende soltanto un pessimo servizio alla democrazia e al Paese. Si pongono le basi per far saltare l'intero sistema politico, le fondamenta stesse del patto di rappresentanza fra cittadini e partiti. Che razza di professionisti della politica sono questi, in grado di trovare l'unanimità su scelte oggettivamente odiose, ma incapaci di raggiungere un accordo sulle riforme chieste a gran voce dall'intera opinione pubblica? 

Viene quasi da chiedersi se non vi sia una logica in questa follia. Se una classe dirigente di gattopardi allergici al cambiamento non abbia deciso di blindarsi a palazzo, nel calcolo che comunque il movimentismo di Grillo non esprimerà mai un'alternativa di governo per una grande nazione, ma al massimo uno sfogatoio ai rancori accumulati da pezzi di società. Se così fosse, si tratterebbe di una strategia catastrofica. 

Occorre sperare che non sia vero. Sperare di trovarci di fronte all'ennesimo richiamo della foresta di sorde burocrazie di partito e vecchi gruppi dirigenti che hanno perso il contatto con la realtà, la volontà e i sentimenti dei cittadini. Credere che il ripensamento di alcuni partiti, il Pd, l'Udc, l'Idv, sia la sincera ammissione di un errore e non una retromarcia da opportunisti. Ma al solito, perché non ci avevano pensato prima? Non si pretende che la politica arrivi sempre prima della società. Per quanto proprio in questo consista la buona politica. Ma neppure si può rassegnarsi all'idea che arrivi ogni volta molto dopo, quasi sempre troppo tardi e per giunta con l'aria di chi è trascinata a forza verso soluzioni chiare e oneste, cui naturalmente sfuggirebbe come il diavolo davanti all'acquasantiera. Non bastassero ogni mese un nuovo scandalo e un altro rinvio delle leggi contro la corruzione per alimentare cattivi pensieri e pessimi populisti.

Curzio Maltese - La Repubblica

domenica 16 settembre 2012

Noche de los Lápices





La Notte delle matite (Noche de los Lápices), è il nome in codice dell'operazione organizzata dalla polizia Argentina, con lo scopo di sequestrare, sempre durante la notte, reprimere, torturare ed uccidere, gli studenti delle scuole superiori che si fossero resi colpevoli di "attività atee ed anti nazionaliste" nel periodo intercorrente tra il 24 marzo 1976, data del colpo di stato che porterà al potere la giunta militare guidata da Jorge Rafael Videla, ed il 1983, in quello che fu definito all'epoca come Processo di Riorganizzazione Nazionale.
Quella che nel ricordo popolare viene definita come Notte delle matite spezzate ebbe luogo a La Plata, nella notte del 16 settembre 1976, quando vennero sequestrati sei studenti, militanti o simpatizzanti della cosiddetta Unión Estudiantil Secundaria (UES), responsabili secondo le autorità della partecipazione alle manifestazioni, in precedenza per l'istituzione e successivamente contro l'abolizione, del Boleto Escolar Secundario (BES), un tesserino che consentiva agli studenti liceali sconti sul prezzo dei libri di testo ed una riduzione del biglietto per l'utilizzo dell'autobus; altri studenti, tra i quali Pablo Diaz, furono arrestati nei giorni successivi.
Tutti i sei giovani arrestati nella notte del 16 settembre scomparvero e la testimonianza di uno degli studenti sopravvissuti, Pablo Díaz, al momento dell'arresto appartenente all'organizzazione giovanile rivoluzionaria Gioventù guevarista e che subì, oltre ai maltrattamenti ed alle torture avvenute nei centri di detenzione, una reclusione di quattro anni senza processo, è stata fondamentale ai fini della ricostruzione e della denuncia dei fatti avvenuti
I sequestrati:  Claudio de Acha (17 anni, scomparso): sequestrato il 16 settembre in casa di Horacio Ungaro. Horacio Ungaro (17 anni, scomparso): sequestrato il 16 settembre. María Clara Ciocchini (18 anni, scomparsa): sequestrata il 16 settembre insieme a María Claudia Falcone. María Claudia Falcone (16 anni, scomparsa): sequestrata il 16 settembre nella casa della nonna paterna. Francisco López Muntaner (16 anni, scomparso): sequestrato il 16 settembre. Daniel A. Racero (18 anni, scomparso): sequestrato il 16 settembre. Patricia Miranda (17 anni, sopravvissuta): sequestrata il 17 settembre. Emilce Moler (17 anni, sopravvissuta): sequestrata il 17 settembre. Pablo Díaz (18 anni, sopravvissuto): sequestrato il 21 settembre. Gustavo Calotti (18 anni, sopravvissuto): nonostante fosse sequestrato l' 8 settembre, si considera un sopravvissuto, dato che molti dei sequestrati erano suoi ex compagni di liceo e passò insieme a loro molti mesi di prigionia e tortura clandestina.
http://www.youtube.com/watch?v=l2Vb8fgZ9Xs

giovedì 13 settembre 2012

SeiReferendumPd



Lo Statuto del Partito Democratico – in particolare all’Articolo 27 – prevede, oltre ovviamente alle primarie, un altro strumento di partecipazione aperto a tutti gli iscritti, gli elettori e i simpatizzanti: e quello strumento è il referendum.
A differenza delle primarie, però, nei quattro anni di vita del Partito Democratico, mai nessun referendum è stato indetto.
A meno di un anno dalle elezioni politiche 2013, proponiamo quindi di convocare una serie di referendum che permettano a tutti gli elettori del Pd di esprimersi su tematiche politiche e di programma.

A cosa servono i referendum?

Lo Statuto prevede referendum in forma deliberativa o consultiva. Noi proponiamo quella deliberativa. Significa che, se i quesiti verranno approvati dagli elettori, il partito dovrà adottare quei temi in agenda.
per maggiori informazioni: www.referendumpd.com

Se vince Renzi che cosa fate?


Parte la campagna delle primarie. Domani Renzi, poi Bersani, presto Vendola, poi Tabacci se il regolamento sarà tale da ammetterlo (speriamo di sì). Sarà un confronto duro, s’è già capito.
Alla vigilia è opportuno porre nel Pd una domanda esplicita. Antipatica ma ineludibile, vista la temperatura che sale intorno alla candidatura del sindaco di Firenze.
Renzi ha già detto più volte che se dovesse perdere non avrà problemi a rientrare nei ranghi e a sostenere Bersani a marzo. Prendiamo per buone le sue parole.
La domanda è: lo stesso vale per tutti gli altri, nel Pd?
Non giriamoci intorno. Quando Casini dice che in caso di vittoria di Renzi il Pd si spaccherebbe in due, non fa che ripetere cose ascoltate dai suoi dirimpettai democratici. E che conosciamo anche noi. Dirigenti di primo piano che, esplicitamente o ammiccando, avvertono: se vince Renzi, io vado via.
Bersani non c’entra con questo. A Reggio Emilia ha fatto un discorso bello e coraggioso, invitando tutto il Pd (forse, in particolare, la propria maggioranza) a non temere le sfide, ad avere fiducia in sé. Bersani è una persona aperta, s’è messo in gioco convinto che lui stesso e il Pd usciranno dalle primarie meglio di come ci entrano.
La pensano tutti come lui? Farebbero tutti il giuramento: comunque nel Pd, chiunque lo guidi alle elezioni? 
Sarebbe importante saperlo. Perché dalla risposta discende anche un’altra conseguenza, questa nel caso che invece Renzi perda.
Come s’è capito, la sua figura ha una forza d’attrazione che travalica i confini del Pd e del centrosinistra. Si può considerare questo come un difetto, o un pericolo: molti nel vertice Pd la pensano così, e quindi vogliono piegare Renzi anche per allontanare da sé ogni rischio di contaminazione da accessiva apertura all’esterno.
Oppure, all’opposto, si può decidere che, comunque vada, questa potenzialità è un imprevisto bene collettivo. Un’arma formidabile di penetrazione negli elettorati altrui (segnatamente ex centrodestra e grillini) di cui nessun avversario dispone (tanto meno gli spompati centristi).
Nella inevitabile durezza della campagna che si apre, sarà bene tenere sempre l’obiettivo comune sopra ogni altra valutazione. Sopra antipatie e simpatie. Sopra la tutela dei propri spazi personali.
Siamo tutti d’accordo? 
Stefano Menichini

Dinosauri 2


“Se l’Inghilterra ha fatto a meno di Tony Blair e la Germania ha fatto a meno di Helmut Kohl forse l’Italia potrebbe fare a meno di D’Alema, no?"
Graziano Delrio - Sindaco di Reggio Emilia

Dinosauri 1


“D'Alema? Se non sbaglio ha perso.
All'estero, di solito, chi perde si ritira o fa un passo indietro.”
Debora Serracchiani

mercoledì 12 settembre 2012

Rosy...ca


Vi confesso. Voglio davvero bene a Bersani. Immagino come gli girino le palle ogni volta che la prima domanda che gli pongono i cronisti è: che dice a Renzi? come risponde a Renzi? E il segretario ad inseguire la lepre che scappa non ce lo vedo mica. D’altronde nei confronti del sindaco di Firenze Bersani non ha utilizzato una singola parola offensiva. Sa bene, che oltre ad essere sbagliato è soprattutto controproducente.
Le pagine dei quotidiani sono invece piene delle dichiarazioni dei maggiorenti del PD  che ogni giorno non fanno altro che parlare (male) di Renzi. In particolare Rosy Bindi. Ma come ho scritto mesi fa, il vero obiettivo degli attacchi è Pierluigi Bersani, reo di voler utilizzare le primarie per avere le mani libere nella corsa alle elezioni e per praticare un rinnovamento generazionale che il segretario percepisce come improcrastinabile.
E così, non passa giorno che Rosy Bindi non minacci, o lasci intendere, che se Bersani non dà garanzie, è pronta a candidarsi alle primarie. En passant, giova ricordare che la Bindi è la presidente dell’Assemblea, che è il luogo dove deve essere approvato il dispositivo sulle regole di partecipazione e la data delle primarie. Ad oggi, 12 settembre la convocazione dell’Assemblea non è stata ancora fissata.
Un consiglio a Rosy Bindi. Le primarie sono una cosa seria, non sono un congresso di partito, né un recinto in cui far valere la propria forza interdittiva, meno che mai il tavolo su cui far pesare ricattucci. Chi ha idee, visione e coraggio, si candidi! Senza mezze parole, veline date alla stampa, minacce come fossero clave.
Si candidi Rosy Bindi con chiarezza, e la finisca con questo giochino, molto più che insopportabile.
Francesco Nicodemo - www.francesconicodemo.it

mercoledì 5 settembre 2012

Il Patto

Il patto di potere tra i big a cui si riferisce Matteo Renzi è anche l'organigramma dell'ultimo giro. È la spartizione di poltrone dei "vecchi", come si evince chiaramente dalle parole del trenta-quarantenne Matteo Orfini, unito al sindaco di Firenze solo dalla voglia non di mandare tutti a casa ma di non vederli più in prima fila. "Nessuno ex ministro dovrà tornare al governo nel 2013", avverte Orfini facendo capire che molti invece scaldano i muscoli. Ma anche Antonello Soro, prudente e navigato ex capogruppo del Pd alla Camera ora transitato all'authority per la privacy, descriveva, alla vigilia dell'estate, una futuribile divisione dei compiti: "Franceschini spera nella presidenza della Camera, ma per quel posto è in corsa Veltroni. A Dario daranno la segreteria del Pd". 

Qualcosa più di una voce, dunque. Qualcosa, anzi molto meno di un patto blindato che sarebbe comunque sottoposto a un numero infinito di variabili, la prima della quale non è irrilevante: vincere le elezioni e gestire il ricambio di governo. In questo caso, quello che il Foglio ha chiamato "papello" ma che in realtà è vero un toto-poltrone, disegna così l'Italia del 2013. Pier Luigi Bersani premier, Rosy Bindi vicepremier, Veltroni presidente della Camera, D'Alema ministro degli Esteri o commissario europeo, Franceschini segretario del Pd, Fioroni ministro. Secondo Renzi questo tipo di intesa spiega l'insolita assenza di litigiosità tra le correnti democratiche. E sta alla base, per esempio, dell'equidistanza di Veltroni sulle primarie mentre gran parte dei veltroniani riconoscono nel sindaco di Firenze il vero erede del programma illustrato al Lingotto nel 2007. Ma la pianificazione a tavolino è reale? Pur coinvolto direttamente, sono mesi che Beppe Fioroni mette in guardia i suoi colleghi dalla sindrome dell'ultimo giro. "E se alla fine ci spazzassero via tutti?", dice. 

In nome di quell'organigramma, si alzerebbero anche le dichiarazioni di chi vorrebbe evitare le primarie. La Bindi (pronta a correre nella complicata gara per il Quirinale) dice che non sa se si faranno, lo stesso Fioroni chiede a Renzi di dimettersi da sindaco se davvero ha intenzione di correre, Veltroni - che in subordine potrebbe approdare ad un "megaministero" per i Beni culturali e le Comunicazioni - vuole capire "primarie per cosa". Il duello interno come grimaldello per rinnovare il partito e soprattutto far saltare "l'organigramma", insomma. È così? Orfini le interpreta anche in questa chiave: "È chiarissimo perché qualcuno non le vuole. Scompaginano antiche consuetudini, rimettono in discussione big senza voti. Ma sono utili proprio per questo. Le primarie tra Renzi e Bersani si devono fare. Pier Luigi le vincerà". Con quali garanzie per i dirigenti più esperti? 

Domande, dubbi, timori. Persino qualche ironia sulla recensione fatta da D'Alema sull'Unità al nuovo libro di Veltroni: sarebbe un'altra prova dell'entente cordiale. Sulle indiscrezioni, sullo scontro generazionale, sulle insinuazioni di cui "l'organigramma" fa parte a pieno titolo perché tira in ballo nomi molto conosciuti, Bersani rischia di vedere spaccarsi il partito. Orfini sa essere diretto come un cazzotto: "Il segretario uscirà da candidato premier nella sfida con Renzi. Ma io sarei ancora più sicuro della vittoria se fosse uno scontro diretto tra i due. Temo che il sostegno dei notabili a Pier Luigi si trasformi in una zavorra". È Bersani a dover sbrogliare la matassa di questo incredibile caso. Il leader ha già annunciato un ricambio robusto delle liste per il Parlamento e ha spiegato la sua alchimia per un eventuale governo di centrosinistra. "Qualche presidio di esperienza e tanti volti nuovi come ministri", ha spiegato. Un identikit e non un organigramma. Da sempre Bersani è uno dei dirigenti democratici più attenti ai giovani. Ha creato una segreteria di quarantenni, "scopre" ragazzi sui territori e li appunta su un quaderno, non gli dispiace l'idea di avviare una ristrutturazione del centrosinistra per lasciare spazio al nuovo. Ma, come dice D'Alema, Bersani deve anche tenere unito il partito. E da qualche giorno, vedendo allargarsi la polemica generazionale, insiste sul tasto in ogni occasione, in ogni festa democratica. "Non dimentichiamoci di chi ci ha portato fin qui". Che sono gli stessi che lo hanno portato alla segreteria nel congresso del 2009. Bindi gli ha chiesto di fermare la deriva del duello a distanza sull'età, gli anni in Parlamento, il limite dei mandati, gli "editti" di Renzi o di Orfini, l'epurazioni a mezzo stampa. Bersani farà chiarezza. Ma senza prendere la bandiera di una o dell'altra squadra. Sapendo che il rinnovamento potrebbe essere dettato dall'esterno. Dalle liste di Grillo, dai giovani che sceglierà Nichi Vendola per il suo partito, dalle mosse di Berlusconi.  

Goffredo De Marchis - La Repubblica